Nuove forme di lettura e deficit di attenzione: una questione problematica

Leggere un libro non significa solo sfogliare le pagine. Significa riflettere, individuare le parti su cui tornare, interrogarsi su come inserirle in un contesto più ampio, sviluppare le idee. Non serve a niente leggere un libro se ci si limita a far scorrere le parole davanti agli occhi dimenticandosene dopo dieci minuti. Leggere un libro è un esercizio intellettuale, che stimola il pensiero, le domande, l’immaginazione.” Così parla della lettura Noam Chomsky, filosofo, linguista e scienziato cognitivista di fama mondiale, nel suo “Sistemi di potere. Conversazioni sulle sfide globali” pubblicato in Italia nel 2013.

La lettura è quella invenzione culturale che ha permesso nel corso degli ultimi millenni lo sviluppo cognitivo dell’umanità. Ma che, dopo la lunga fase della “parentesi Gutenberg”, vale a dire quel periodo – così chiamato dall’autore di “Oralità e scrittura”, Walter Ong- di circa 500 anni durante il quale, grazie all’invenzione del libro a stampa, si è imposta quella pratica di lettura profonda, solitaria, riflessiva così come la descrive Chomsky, insomma dopo questa lunga e feconda parentesi, per la lettura, sta di nuovo cambiando tutto, questa volta sotto la spinta della rivoluzione digitale.

Le innovazioni in corso, a cominciare dalle tre che hanno definitivamente cambiato i nostri comportamenti e le regole del gioco – Internet, i social media e gli smartphone – hanno, tra le tante altre cose, dato avvio alla grande migrazione dei testi su nuovi supporti virtuali. Siamo testimoni di una contingenza epocale, dagli effetti culturali simili a quella gutenberghiana: il passaggio dalla carta allo schermo, ovvero, in pratica, la nascita di nuove forme di lettura.

La lettura digitale, rispetto a quella su carta, è nella sua fase iniziale. Tuttavia, si è già misurata con il mercato editoriale e finora con alterne fortune: prima bene e poi male con i vari eReader e eBook, meglio con Kindle. Poi è partita alla conquista dell’universo scolastico. In questo ambito ha offerto e offre indubbi vantaggi immediati d’ordine pratico, economico e organizzativo, lasciando anche intravvedere future, forse grandi, opportunità. Intuite, ad esempio, da Stati Uniti e Unione Europea che sin dal 2018 – con leggi ad hoc e piani d’azione – hanno messo le competenze scolastiche digitali tra le priorità.

In ogni caso, nello specifico, l’utilizzo delle schermo può essere uno tra i primi punti interessanti a favore della lettura digitale. Infatti, la capacità di adattamento nella visualizzazione dei caratteri, delle righe, dei formati ecc., offre valido supporto a bambini e studenti con difficoltà di apprendimento e/o con problemi fisici e cognitivi. Tuttavia, dato che la tecnologia è sempre un’arma a doppio taglio ed è particolarmente vero nel caso del digitale, lo stesso schermo può limitare se stesso rispetto alla comprensione del testo: lo scorrimento delle pagine, infatti, può rappresentare un problema.

Come evidenzia Naomi S. Baron, linguista ed esperta in problemi dell’apprendimento: “scorrere mentre si legge un testo digitale (diversamente dallo sfogliare le pagine) sembra ridurre la comprensione, e la ragione è che quando si leggono delle informazioni non solo si elaborano le parole, ma si sperimenta insieme anche una forte percezione del luogo (mezzo/ supporto) che ospita ciò che si legge”. Non solo, utilizzare le proprietà schermo significa anche adottare tecniche di lettura digitale intrinsecamente vincolate a un uso veloce e quindi superficiale.

I ricercatori che se ne sono occupati, come Anne Magen dell’università norvegese di Stavanger, le hanno chiamate: modalità browsing (scorrimento veloce), modalità skimming (lettura superficiale) e modalità skipping (salto di parti di testo). Queste modalità di lettura digitale, ormai entrate nell’uso corrente nell’utilizzo dei testi mediante lo schermo, sono oggetto ormai di frequenti monitoraggi /ricerche soprattutto in ambito scolastico. E tutti i tentativi di analizzare la lettura digitale si basano – in sostanza – sul confronto con la tecnologia che l’ha preceduta: la lettura su carta.

Anche in questo caso ci aiuta Naomi S. Baron, che mettendo insieme i risultati di ricerche e questionari – sul confronto digitale vs carta – che tagliano trasversalmente tutti gli ordini scolastici, ha provato a tirare delle prime somme, e nel farlo ha formulato tre ipotesi: la stampa in confronto alle brillanti possibilità della lettura sullo schermo risulta ai studenti statica e noiosa; gli studenti sono però consapevoli che lo studio su carta stampata presuppone procedure lente e di maggiore impegno; visto però che gli insegnanti sostengono che digitale e stampa sono equivalenti (?) dal punto di vista educativo è inevitabile che, alla fine, scelgano quella meno costosa e impegnativa per loro.

Insomma, gli studenti sembrano non avere dubbi nello scegliere (preferire) la lettura digitale, evitando in questo modo il maggiore impegno richiesto dallo studio su i libri di testo a stampa, e in questo sembrerebbero, per così dire, “supportati” dall’atteggiamento degli insegnanti. Ma se poi dalla “preferenza”, nel confronto tra le due tecnologie, si passa alla “produttività” rispetto allo studio, la situazione, in pratica, si ribalta e anche se a “malincuore” gli studenti decretano la vittoria della carta.

Infatti, in un’altra ricerca, sempre della Baron, in perfetta controtendenza rispetto ai dati precedenti, ben l’87% degli studenti universitari preferirebbe il cartaceo se il costo fosse abbordabile, mentre una percentuale ancora maggiore (il 92%) dichiara di concentrarsi meglio con i testi a stampa, stessa cosa per gli studenti della scuola secondaria che per 85% studiano con maggior profitto utilizzando la carta. A questo punto è evidente che rispetto allo “studio” la differenza è data dalla “concentrazione”, cioè da quella pratica di lettura “approfondita” possibile – secondo gli studenti – soltanto con il testo a stampa.

Ma in realtà, la consapevolezza della superiorità dello studio su carta non basta a nascondere il fatto che la (vera) preferenza degli studenti va, comunque, alla lettura digitale che non è “statica”, “noiosa” e “impegnativa” come la carta, ma è ritenuta, al contrario, – grazie a supporti come tablet, computer, smartphone –, movimentata, brillante e veloce. Ed anche la presunta equivalenza tra digitale e carta lasciata intendere dai docenti contribuisce a rendere le opzioni di studio degli studenti meno chiare.

Più informazioni, da questo punto di vista, sono fornite da uno studio parallelo su docenti statunitensi e norvegesi implementato sempre dalla Baron con l’aiuto di Anne Magen dell’Università norvegese di Stavanger. Particolarmente interessante la parte dove i docenti rispondono a domande su come la tecnologia digitale influenzi il modo di leggere degli studenti.

Coloro che credono che si tratti di una influenza positiva, sottolineano il vantaggio dei costi inferiori, le grandi possibilità di accesso a fonti primarie e a un maggior numero di letture accademiche, ed anche la possibilità che qualche studente legga di più. I docenti che invece ritengono l’influenza del digitale negativa – che sono in maggioranza – rimarcano alcuni particolari effetti: a cominciare dall’”ipotesi dell’appiattimento” ovvero di come ci si impegni mentalmente di meno nella lettura digitale rispetto a quella su carta, e poi la stessa velocità (scorrimento) di lettura come causa della perdita di molte nozioni, il rifiuto della complessità con l’aspettativa che ogni concetto sia reso (dal digitale) semplice e accessibile, quindi il peggioramento delle capacità di concentrazione, e infine (e soprattutto) un forte e durevole effetto negativo sull’attenzione.

Uno dei padri della psicologia, William James, scrive: “tutti sanno cosa sia l’attenzione. È prendere possesso di una parte della mente, in forma chiara e vivida, di uno solo tra i tanti possibili oggetti o pensieri che si presentano simultaneamente. Focalizzazione e concentrazione della coscienza sono la sua essenza. Essa implica l’abbandono di certe cose per trattarne efficacemente altre”.

Il problema degli studenti con i loro devices utilizzati per la lettura digitale è proprio la difficoltà di prendere possesso solo del testo che dovrebbero leggere riuscendo, nel frattempo, a scacciare tutti quegli oggetti e pensieri che si presentano simultaneamente. Insomma, si dovrebbero liberare della tentazione multitasking indotta a getto continuo dai loro dispositivi digitali.

In un vecchio report del 2015 della Microsoft, poi ribalzato per anni tra i media di tutto il mondo, si sosteneva che a causa delle tecnologie digitali la durata media dell’attenzione su un unico oggetto era precipitata dai 12 secondi nel 2000 agli 8 secondi del 2013, meno di quella, secondo il team Microsoft, di un pesce rosso (?).

Dopo questo allarme si sono aggiunti a cascata articoli, servizi televisivi e altro. Insomma, il deficit di attenzione è diventato una preoccupazione globale e ci si è cominciati a interrogare sulle cause. Ed è del tutto evidente che nell’ambito dell’apprendimento, il deteriorarsi dell’attenzione è un problema enorme perché confliggente con la promessa di produttività, in ambito scolastico, delle nuove forme di lettura digitale. Con la crisi dell’ attenzione (in costante peggioramento) salta – in sequenza – anche la capacità di concentrazione che significa il venire meno della precondizione essenziale per lo studio produttivo.

A questo punto, nell’ambito di una mutazione tecnologica caratterizzata dal cambiamento epocale (dalla carta al digitale) dei supporti per la trattazione dei testi, è evidente che le nuove forme di lettura si trovano davanti ad una sfida decisiva per il loro sviluppo e futura ridefinizione: la questione del deficit di attenzione. La neuroscienziata cognitivista Maryanne Wolf si chiede in un suo saggio se cambierà della nostra attenzione mentre leggiamo su mezzi elettronici che vanno a vantaggio dell’immediatezza, di rapidissimi passaggi da una parte e dall’altra, e di un monitoraggio continuo della distrazione, e a discapito di una concentrazione più deliberata della nostra attenzione?

Non vi è dubbio che il nostro cervello è sotto attacco e che la vittima principale è l’attenzione, mentre gli aggressori sono con tutta evidenza i nostri dispositivi digitali. Ma, stabilito ciò, spiegare le cause di questa situazione non è lineare come sembra, non è così semplice. Gli studenti che invece di impegnarsi sul testo digitale loro assegnato perdono la loro attenzione ( e il profitto) nei labirinti del multitasking sono soltanto singole vittime di una “perfida” tecnologia? Oppure le cause del problema sono – controintuitivamente – più antiche con origini biologiche ed evolutive?

O invece il deficit d’attenzione non è, come molti pensano, un problema del rapporto individuo-tecnologia, ma un fenomeno collettivo con cause sociali? Il sociologo e filosofo canadese Marshall McLuhan, con la sua celebre tesi “il medium è il messaggio” ha cambiato per sempre la nostra percezione delle tecnologie della comunicazione, spiegando che i media non sono semplici veicoli che trasportano contenuti, ma sono in grado di influenzare la forma dei processi mentali di chi li utilizza.

Le intuizioni rivoluzionarie del sociologo canadese concepite negli anni ’60 del secolo scorso, sono state poi confermate dalle scoperte delle neuroscienze sia riguardo la generale plasticità del cervello sia rispetto alla modificabilità dei circuiti cerebrali per intervento di fattori esterni, come ad esempio una nuova tecnologia della comunicazione. Seguendo linearmente questa impostazione, è facile cadere nel determinismo tecnologico. La paura che la nostra vita assediata dalla iper-tecnologica ci presenti il conto, magari mettendo a rischio le nostre capacità cognitive superiori, è stata negli ultimi anni divulgata da alcuni saggi di successo.

Maggie Jackson, nel 2008, con il suo “Distracted. The Erosion of Attention and the Coming of the Dark Age” ha annunciato al mondo l’avvento – a causa dei media elettronici – di un nuovo medioevo interpretato come l’epoca della perdita dell’attenzione e del trionfo della distrazione. Nicholas Carr – scrittore ed editorialista del New York Times – è stato finalista premio Pulitzer 2011 con il suo libro di critica anti-tecnologica “Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello” nel quale ha denunciato come Internet e le tecnologie digitali sottopongano i nostri cervelli ad una pressione sensoriale così forte da mettere a rischio o addirittura distruggere molte capacità associate all’intelligenza come il pensiero razionale, la riflessione, la lettura profonda, la comprensione dei testi.

Ma, come accennato, ci sono poi altre interpretazioni. Ci sono ricerche che invece di spiegare le difficoltà cognitive e il deficit di attenzione con la semplice equazione: troppa tecnologia uguale a troppa distrazione, si pongono una domanda diversa: perché il nostro cervello è così distratto? Perché appare così sensibile alle interferenze esterne (multitasking)? Forse possono esserci altre cause diverse dal quella bombardamento tecnologico?

Con tali premesse è nato il lavoro del neuroscienziato Adam Gazzaley e dello psicologo Larry D. Rosen “Distracted Mind. Cervelli antichi in un mondo ipertecnologizzato”. Nel quale si parte dal “problema delle interferenze” per poi descrivere come l’essenza stessa di ciò che si è evoluto nel nostro cervello fino a renderci umani – cioè la nostra abilità nel porci degli obiettivi di alto profilo – si scontra frontalmente con i limiti fondamentali del nostro controllo cognitivo: primo tra questi la capacità di mantenere l’attenzione.

Secondo Gazzaley e Rosen, quella “mente distratta” che preoccupa così tanto i critici del mondo iperconnesso, non è il prodotto della moderna tecnologia, ma è piuttosto una vulnerabilità fondamentale del nostro cervello. In altre parole, assumiamo assai frequentemente comportamenti che producono interferenze, come il multitasking compulsivo, perché da un punto di vista evolutivo stiamo semplicemente comportandoci nel modo migliore per soddisfare un nostro bisogno innato di ricerca di risorse. Oggi le risorse che cerchiamo compulsivamente si chiamano informazioni, nel passato preistorico si chiamavano cibo. E in questo scenario che ruolo spetta alle tecnologie digitali? Non più centrale, ma comunque importante.

In uno studio effettuato alla Stanford University che permetteva di scattare ogni pochi secondi uno screenshot per determinare la quantità di multitasking di uno studente tipo in una giornata di dieci ore, si è scoperto che gli studenti della Stanford passavano da una schermata all’altra in media cinque volte al minuto. In un’altra ricerca realizzata da uno degli autori del libro – Larry D. Rosen – i giovani della NetGeneration e della iGeneration riferiscono di provare ansia moderata/forte se non possono controllare i messaggi di testo sui loro smartphone almeno una volta ogni quarto d’ora.

Questo tipo di ansia è stata denominata FOMO (Fear of Missing Out), in pratica la paura di essere tagliati fuori. I risultati di queste ricerche esemplificano lo schema interpretativo: cervelli antichi in un mondo ipertecnologizzato. Il nostro cervello (antico) ha continua fame di informazioni, le tecnologie digitali hanno, in pratica, il ruolo di prede, cioè di sfamare pervasivamente questo istinto innato. Non solo. La loro azione sfrutta anche fattori psicologici interni – come la noia e l’ansia – per alzare sempre di più la frequenza del multitasking: ci si annoia subito di quello che abbiamo trovato e siamo subito ansiosi di passare ad altro il più velocemente possibile.

Gazzaley e Rosen non sono certo dei tecnofobici e non credono assolutamente che ci troviamo alla vigilia di un “medioevo della distrazione”. La nostra bulimia per l’alta tecnologia penalizza il nostro cervello con il deficit d’attenzione, e la soluzione non è altrove, ma può essere trovata – secondo gli autori di “Distracted Mind” – senza abbandonare o ridimensionare il nostro mondo ipertecnologizzato, ma allenandoci a praticare opportune tecniche psicologiche con le quali imparare a mantenere la nostra attenzione su una attività soltanto ignorando la seduzione di tutte le altre.

Per la terza interpretazione, quella sociale, ci viene in aiuto un interessante saggio di Enrico Campo, ricercatore in Scienze politiche presso l’Università di Pisa: “La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale”. Nella sua ricerca, a differenza delle precedenti, il punto di partenza non è più il cervello del singolo continuamente messo sotto la pressione delle tecnologie digitali, ma tanti cervelli (che costituiscono il sistema sociale) in perenne crisi di attenzione, a cui si aggiunge un’altra differenza fondamentale: le tecnologie digitali non sono più la causa primaria di questa crisi.

Secondo Campo, l’errore che spesso è fatto è quello di affrontare l’attenzione da un punto di vista individualistico: di fatto non rivolgiamo mai l’attenzione verso qualcosa in completo isolamento, ma siamo sempre in relazione ad altro e ad altri. Infatti, le facoltà cognitive, la percezione del mondo sono rese possibili dall’esistenza delle relazioni sociali e di conseguenza anche l’attenzione del singolo è legata al senso comune, in altre parole, noi rivolgiamo l’attenzione solo verso ciò che è considerato rilevante.

Detto ciò è evidente che la vulgata secondo la quale il nostro cervello sotto attacco dei media digitale reagirebbe con disturbi come difficoltà di memorizzazione, apatia, scarso rendimento scolastico e soprattutto con deficit d’attenzione, non coglie nel segno. Rispetto a tutte le difficoltà cognitive elencate non c’è dubbio che le tecnologie digitali abbiano un ruolo di pressione sensoriale importante, ma la causa del deficit di attenzione va ricercata a monte, vale a dire nel modo in cui la nostra società organizza (norma) l’attenzione stessa. Né è un esempio il sovraccarico cognitivo – tipica causa del deficit di attenzione – dovuto ad un eccesso di informazioni che deve essere contestualizzato storicamente analizzando i meccanismi di governo di questo sovraccarico che hanno cause sociali e non sono un problema del singolo.

In conclusione, L’organizzazione della società attuale è tutta all’interno di una logica (neo)capitalista e incardinata in una conseguente contraddizione cognitiva tra “il produrre concentrati” e il “distrarsi per consumare di più”. Oggi gli strumenti (o mezzi della percezione/distrazione di massa) più potenti e affilati a disposizione del (neo)capitalismo e della relativa organizzazione sociale sembrano essere le tecnologie digitali.

Convegno delle Stelline 2024 “Biblioteche e nuove forme di lettura”
Relazione pubblicata nell’ambito del gruppo di lavoro “Lettura: carta, schermo, audio?”

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La connettività sta avvelenando il mondo?

L’inventore del web, Tim Berners-Lee, ha da tempo  lanciato l’allarme: la tecnologia digitale ormai funziona in un modo distopico e tutte le vecchie promesse di un mondo, che grazie all’avvento di internet,  avrebbe dovuto avere meno conflitti, più comprensione, migliore scienza e buona democrazia, sembrano completamente svanite.

Un recente libro – uscito in Italia a febbraio di quest’anno – di fatto certifica i foschi presagi dell’inventore del web. Si tratta del saggio  “L’era della non-pace. Perché la connettività porta al conflitto”, di Mark Leonard, co-fondatore e direttore dell’European Council on Foreign Relations ed esperto in geopolitica,  geoeconomia, Cina e profondo conoscitore della politica e delle istituzioni dell’UE.

Mark Leonard affonda la sua analisi proprio sulla caratteristica che la cultura tecno-utopista degli anni novanta del XX secolo aveva esaltato: la connettività globale raggiunta grazie alla Rete, e da qui, la conseguente, sempre secondo i sognatori della Silicon Valley,  liberazione degli individui da ogni opprimente gerarchia con l’inevitabile trionfo di una pacifica orizzontale cooperazione universale.

Come tutti ormai sappiamo, la storia è andata diversamente. Non abbiamo capito o non potevamo agli inizi capire la connaturata ambivalenza sociale insita nel funzionamento della Rete: in particolare, le conseguenze (anche) negative del veloce ridursi delle distanze tra le persone fino a rendere il mondo un implosivo “villaggio globale”. Leonard, infatti, spiega che la connettività è un’arma a doppio taglio in quanto ingenera sia conflitto che cooperazione. Fino all’era industriale l’organizzazione della società era basata sulle gerarchie, oggi, nel mondo contemporaneo, sulla spinta (irresistibile/irreversibile) della globalizzazione e della rivoluzione digitale, è con l’organizzazione della Rete che dobbiamo fare i conti.

Abbiamo scoperto che il mondo basato sulla Rete è altamente imprevedibile. La Rete è un sistema complesso che cresce attraverso una continua aggregazione di nodi. Ma, è una crescita asimmetrica: alcuni nodi crescono (contano) molto più degli altri perché hanno tantissime connessioni, e per questo sono detti hub. È attraverso questo squilibrio tra i nodi che si manifesta la legge che domina la Rete: la “legge di potenza” ovvero la concentrazione di tantissime connessioni (e quindi potere) in pochi super-hub. Un esempio? L’enorme successo  di alcune piattaforme che sfruttano la “legge di potenza”: Uber che domina nel trasporto pubblico senza possedere auto, Facebook che domina nello scambio di contenuti sul web senza crearli, Airbnb che domina nell’affitto degli alloggi senza possedere neanche una casa.

In pratica, l’interdipendenza del mondo, tanto elogiata nei decenni passati, è diventata, spiega Leonard, un grosso problema, spesso addirittura in un’arma. La connettività ha dato alle persone nuove ragioni per combattere e nuove armi con cui colpire. E più aumentano le connessioni più il mondo si frammenta, e ogni frammento guarda con sospetto, paura, invidia e ostilità quello che c’è fuori di esso. E cosa grave, la politica che dovrebbe impegnarsi nel risolvere i problemi sociali sembra, invece, sfruttare l’aumento di conflittualità manipolando le opinioni mediante l’utilizzo spregiudicato dei social media, fake news ecc.

In questo paesaggio sconfortante e irrazionale, Mark Leonard tenta comunque di introdurre qualche dose  di razionalità individuando nella connettività non solo caratteristiche negative come la tribalizzazione della società e leader populisti senza scrupoli, ma anche alcune importanti positività, conseguenze del mondo globalizzato: il grande aumento delle aspettative di vita, l’uscita di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani dalla povertà estrema e il diffondersi dell’istruzione. Conclusione? Secondo Mark Leonard è necessario sensibilizzare e lavorare su più livelli per trovare il modo di “disarmare” il lato oscuro della connettività, soprattutto attraverso nuove regole e norme che siano in grado di bloccare o almeno contrastare il troppo “veleno” che ormai circola nella Rete.

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L’Archivio di Stato ora è completamente digitalizzato

L’Archivio Centrale dello Stato – che a sede a Roma nel quartiere EUR –  è dal 1861 la memoria documentaria dello Stato unitario. Nei suoi magazzini e scaffali è conservata una tale quantità di documenti che se disposti uno dopo l’altro coprirebbero circa 160 chilometri lineari. Garantire un facile accesso a questo sterminato patrimonio ha rappresentato sempre un problema complesso. Ora, però, giungono buone notizie. Lo scorso 1 marzo è stata presentata la “Teca digitale dell’Archivio Centrale dello Stato”, vale a dire la nuova piattaforma online che promette di essere la risposta concreta alle esigenze di utenti, studiosi, ricercatori che potranno così accedere alle risorse dell’Archivio da ogni angolo dell’Italia e del mondo.

La digitalizzazione di un così vasto patrimonio, iniziata da tempo, ha subito un’accelerazione dal 2022 grazie ai fondi PNRR, e al momento  risultano già disponibili sulla piattaforma  – digitalizzati con standard hOCR che rende possibile la ricerca parola per parola – 1500 inventari e 150 mila fascicoli. Mentre, per quel che riguarda le immagini, le scansioni effettuate hanno raggiunto i 2,5 milioni di riproduzioni e comprendono fotografie, documenti, disegni tecnici, manifesti, registri ecc.

La nuova “Teca digitale dell’Archivio Centrale dello Stato” recepisce le indicazioni europee – programma Horizon Europe 2021-2027 – per quel che riguarda le migliori pratiche per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Infatti, al centro del progetto appena presentato c’è la tecnologia IIIF (International Image Interoperability Framework). Una scelta strategica open source che permette di partecipare alla  grande “community IIIF” alla quale prendono parte le più importanti biblioteche digitali del mondo e soprattutto consente di disporre di un avanzato strumento per la manipolazione delle immagini che permette la visualizzazione ad altissima definizione, la comparazione con immagini provenienti da altre biblioteche della community,  il photoediting, le annotazioni e la condivisione sul web. Inoltre, sempre grazie alla tecnologia IIIF, anche l’interazione tra la Teca digitale e gli utenti riserva maggiori potenzialità: le ricerche effettuate possono essere salvate in una “gallery” e poi utilizzate per creare delle “storie”, vale a dire percorsi visuali con i quali arricchire le proprie esperienze di ricerca con la possibilità anche di pubblicarle mediante la funzione condivisione.

Nel biennio 2023-2024 la Teca digitale continuerà ad accrescere i suoi contenuti. A cominciare dall’ampliamento del percorso tematico già esistente: quello del “made in italy”. Agli oltre 160 mila marchi già disponibili on line, si aggiungeranno altre migliaia di documenti relativi a brevetti della moda, della tecnica e del design italiano. In particolare,  sarà avviata la digitalizzazione dell’Archivio Stile Bertone che consiste in grafici, modelli, disegni tecnici di prototipi progettati e realizzati tra il 1950 e il 2013.

Nel  2024 la digitalizzazione, invece, riguarderà 1,5 milioni d’immagini provenienti dall’ACC (Allied Control Commission) cioè l’archivio della Commissione Alleata di Controllo che operò in Italia tra il 1943 e il 1947; e poi una serie di documenti altrettanto importanti: le circa 60 mila carte dell’Archivio dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), i 75 mila testi normativi del periodo 1861-1932, i registri degli internati militari italiani in Germania e i materiali appartenenti agli archivi degli architetti dell’epoca fascista Luigi Moretti e Armando Brasini.

Pubblicato su “Nòva 24 Frontiere” (Il Sole 24 ore) il 26 marzo 2023

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Tentativi di “evoluzione” per la Biblioteca Digitale

La Biblioteca Digitale scivola sempre di più verso l’obsolescenza. Il fatto è che le sue modalità sono per lo più ferme alla teca o vetrina dove mettere in mostra o al più gestire  testi o immagini digitalizzate. Solo che – nel frattempo – l’ecosistema digitale è cambiato e ricambiato, e di conseguenza sono mutate le aspettative ed esigenze dei suoi potenziali utenti. Insomma, il vecchio “format” sembra proprio non bastare più.

Tra i tentativi più interessanti di “evoluzione” della Biblioteca Digitale c’è quello di DSpace-GLAM, vale a dire  la piattaforma digitale del gruppo 4Science, PMI innovativa con sede a Ravenna  specializzata in Data Science, Data Management e Data Repository per la Ricerca Scientifica e per i  Beni Culturali.  DSpace-GLAM recepisce  le indicazioni del Piano Nazionale di Digitalizzazione (PND) del patrimonio culturale che esorta la costruzione di nuovi paradigmi culturali e nello  specifico, riguardo le biblioteche digitali , prospetta l’idea di allargare i confini del concetto di patrimonio culturale per creare un ecosistema della cultura capace di incrementare la domanda potenziale e ampliare l’accessibilità per diversi segmenti di pubblico.

In primo luogo, la nuova Biblioteca Digitale targata 4Science, è compatibile con tutti gli standard nazionali, internazionali e linee guida RDA. Inoltre, è integrabile con i sistemi di “long term preservation” e garantisce un’adeguata esposizione per quanto riguarda la SEO (Search Engine Optimization). Infine, abbraccia strategicamente la filosofia “open source” anche rispetto alla scelta lungimirante di adottare l’ecosistema IIIF per quel che riguarda la navigazione, visualizzazione e consultazione dei documenti e immagini digitali.

Ma, il vero salto di qualità tentato dall’evolutivo DSpace-GLAM, è un altro. È quello di allargare i confini della tradizionale teca digitale introducendo il concetto di “contestualizzazione” nell’ambito della gestione e offerta di contenuti culturali digitalizzati. Vale a dire, ampliare le possibilità di ricerca degli utenti mettendo loro a disposizione nuove chiavi d’accesso per fruire / interrogare i patrimoni culturali digitalizzati.

L’innovazione fondamentale è l’implementazione di relazioni (digitali)– creando così dei contesti – tra gli oggetti digitali e altre entità quali persone, luoghi, oggetti, eventi ecc. E di conseguenza, in questo modo, determinare  l’apparire di un nuovo tipo di ecosistema: quello dei “paesaggi culturali digitali”. Ecosistema strutturato e poi visualizzato mediante  reti semantiche. La generazione dei  “paesaggi culturali digitali” che  si affiancano e si integrano con la “visione” istituzionale dei patrimoni culturali, può rappresentare un grande valore aggiunto nelle interazioni con la platea degli utenti e nel produrre, nell’ambito appunto delle biblioteche digitali,  nuova conoscenza e inedite prospettive nella valorizzazione dei beni culturali.

Come esempio, abbiamo alcune biblioteche digitali che hanno adottato la piattaforma DSpace-GLAM e che sono già in grado di creare primi abbozzi di “paesaggi culturali” intorno a personaggi storici significativamente presenti all’interno dei loro patrimoni. La Digital Library di Pavia ha creato una rete semantica intorno a Ugo Foscolo. Le collezioni digitali dalla Digital Library della Panizzi mettono, invece, in evidenza reti semantiche che attraversando la storia dell’arte hanno il loro centro intorno ai nomi di Raffaello e il Parmigianino.

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MuseIT: una piattaforma inclusiva per l’accesso ai patrimoni culturali digitalizzati

L’accesso ai patrimoni culturali digitalizzati non è ancora uguale per tutti. La grande platea di utenti che soffrono di qualche forma di disabilità – circa un miliardo di persone in tutto il mondo – spesso è ancora penalizzata nell’accesso e nell’usabilità delle varie  piattaforme digitali.

Ora però c’è un nuovo progetto europeo – MuseIT, finanziato dal programma Horizon Europe per il periodo 2022-2025 – che si propone proprio di colmare questo gap. Si tratta di un’iniziativa dell’Università di Boras (Svezia) che si avvale di un consorzio internazionale di 9 partner dell’area UE e 3 partner associati (USA e Regno Unito). L’obiettivo  del progetto è, infatti,  la progettazione di una piattaforma multisensoriale in grado di garantire una piena accessibilità e usabilità per  tutti utenti.

Al centro della proposta innovativa di  MuseIT ci sono le tecnologie tattili. E per sviluppare al meglio le loro potenzialità, il progetto si avvale di una società leader in questo settore: la francese Actronika. Il co-fondatore della società – Vincent Hayward – ha spiegato che grazie a 30 anni di ricerca sono state sviluppate tecnologie tattili capaci di integrare perfettamente i feedback tattili nelle interfacce uomo-macchina. Infatti, Actronika ha già sperimentato l’inserimento di questo  tipo di tecnologia  in tutti i principali dispositivi digitali: smartphone, touchscreen, controller per la guida e per il gioco ecc.

Per ottenere il risultato previsto, il progetto deve, in pratica, realizzare una rappresentazione multisensoriale dei patrimoni culturali digitalizzati capace di andare oltre i sensi della vista e dell’udito. Non solo. Deve anche, contemporaneamente, intervenire su un altro piano, e cioè innovare nell’ambito della conservazione di beni culturali “atipici”, prevedendo standard di archiviazione interoperabili per i nuovi oggetti digitali multisensoriali.

Più nello specifico, la piattaforma MuseIT consentirà la creazione di espressioni alternative e modalità di rappresentazione (tra cui digitalizzazioni, traduzioni, interpretazioni e/o transmediazioni per esperienze estetiche arricchite) di un insieme di beni culturali predefiniti: oggetti, siti architettonici, beni immateriali ecc. Le rappresentazioni multisensoriali offerte dalla piattaforma terranno conto delle variazioni nella modalità percettive e nella capacità funzionali e cognitive degli utenti, ma nel contempo soddisferanno anche esigenze e preferenze diverse al fine di creare pari opportunità per tutti. Pertanto, le rappresentazioni a più livelli, inclusi segnali visivi, uditivi e tattili, saranno centrali nel progetto.

Il progetto,  intervenendo su una problematica particolarmente complessa, si inspira ai principi dell’Inclusive Design, con particolare attenzione all’accessibilità e al Design Universale. Riguardo l’accessibilità, precondizione richiesta è, ovviamente,  la garanzia che tecnologie utilizzate e relative interfacce possano essere utilizzata da persone con varie forme di disabilità. Mentre, l’adozione del  paradigma del Design Universale mira a creare le condizioni per cui l’utilizzo della piattaforma multisensoriale possa rappresentare un’esperienza tale da coinvolgere non solo la platea della disabilità, ma tutti gli utenti interessati.

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