La connettività sta avvelenando il mondo?

L’inventore del web, Tim Berners-Lee, ha da tempo  lanciato l’allarme: la tecnologia digitale ormai funziona in un modo distopico e tutte le vecchie promesse di un mondo, che grazie all’avvento di internet,  avrebbe dovuto avere meno conflitti, più comprensione, migliore scienza e buona democrazia, sembrano completamente svanite.

Un recente libro – uscito in Italia a febbraio di quest’anno – di fatto certifica i foschi presagi dell’inventore del web. Si tratta del saggio  “L’era della non-pace. Perché la connettività porta al conflitto”, di Mark Leonard, co-fondatore e direttore dell’European Council on Foreign Relations ed esperto in geopolitica,  geoeconomia, Cina e profondo conoscitore della politica e delle istituzioni dell’UE.

Mark Leonard affonda la sua analisi proprio sulla caratteristica che la cultura tecno-utopista degli anni novanta del XX secolo aveva esaltato: la connettività globale raggiunta grazie alla Rete, e da qui, la conseguente, sempre secondo i sognatori della Silicon Valley,  liberazione degli individui da ogni opprimente gerarchia con l’inevitabile trionfo di una pacifica orizzontale cooperazione universale.

Come tutti ormai sappiamo, la storia è andata diversamente. Non abbiamo capito o non potevamo agli inizi capire la connaturata ambivalenza sociale insita nel funzionamento della Rete: in particolare, le conseguenze (anche) negative del veloce ridursi delle distanze tra le persone fino a rendere il mondo un implosivo “villaggio globale”. Leonard, infatti, spiega che la connettività è un’arma a doppio taglio in quanto ingenera sia conflitto che cooperazione. Fino all’era industriale l’organizzazione della società era basata sulle gerarchie, oggi, nel mondo contemporaneo, sulla spinta (irresistibile/irreversibile) della globalizzazione e della rivoluzione digitale, è con l’organizzazione della Rete che dobbiamo fare i conti.

Abbiamo scoperto che il mondo basato sulla Rete è altamente imprevedibile. La Rete è un sistema complesso che cresce attraverso una continua aggregazione di nodi. Ma, è una crescita asimmetrica: alcuni nodi crescono (contano) molto più degli altri perché hanno tantissime connessioni, e per questo sono detti hub. È attraverso questo squilibrio tra i nodi che si manifesta la legge che domina la Rete: la “legge di potenza” ovvero la concentrazione di tantissime connessioni (e quindi potere) in pochi super-hub. Un esempio? L’enorme successo  di alcune piattaforme che sfruttano la “legge di potenza”: Uber che domina nel trasporto pubblico senza possedere auto, Facebook che domina nello scambio di contenuti sul web senza crearli, Airbnb che domina nell’affitto degli alloggi senza possedere neanche una casa.

In pratica, l’interdipendenza del mondo, tanto elogiata nei decenni passati, è diventata, spiega Leonard, un grosso problema, spesso addirittura in un’arma. La connettività ha dato alle persone nuove ragioni per combattere e nuove armi con cui colpire. E più aumentano le connessioni più il mondo si frammenta, e ogni frammento guarda con sospetto, paura, invidia e ostilità quello che c’è fuori di esso. E cosa grave, la politica che dovrebbe impegnarsi nel risolvere i problemi sociali sembra, invece, sfruttare l’aumento di conflittualità manipolando le opinioni mediante l’utilizzo spregiudicato dei social media, fake news ecc.

In questo paesaggio sconfortante e irrazionale, Mark Leonard tenta comunque di introdurre qualche dose  di razionalità individuando nella connettività non solo caratteristiche negative come la tribalizzazione della società e leader populisti senza scrupoli, ma anche alcune importanti positività, conseguenze del mondo globalizzato: il grande aumento delle aspettative di vita, l’uscita di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani dalla povertà estrema e il diffondersi dell’istruzione. Conclusione? Secondo Mark Leonard è necessario sensibilizzare e lavorare su più livelli per trovare il modo di “disarmare” il lato oscuro della connettività, soprattutto attraverso nuove regole e norme che siano in grado di bloccare o almeno contrastare il troppo “veleno” che ormai circola nella Rete.

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L’Archivio di Stato ora è completamente digitalizzato

L’Archivio Centrale dello Stato – che a sede a Roma nel quartiere EUR –  è dal 1861 la memoria documentaria dello Stato unitario. Nei suoi magazzini e scaffali è conservata una tale quantità di documenti che se disposti uno dopo l’altro coprirebbero circa 160 chilometri lineari. Garantire un facile accesso a questo sterminato patrimonio ha rappresentato sempre un problema complesso. Ora, però, giungono buone notizie. Lo scorso 1 marzo è stata presentata la “Teca digitale dell’Archivio Centrale dello Stato”, vale a dire la nuova piattaforma online che promette di essere la risposta concreta alle esigenze di utenti, studiosi, ricercatori che potranno così accedere alle risorse dell’Archivio da ogni angolo dell’Italia e del mondo.

La digitalizzazione di un così vasto patrimonio, iniziata da tempo, ha subito un’accelerazione dal 2022 grazie ai fondi PNRR, e al momento  risultano già disponibili sulla piattaforma  – digitalizzati con standard hOCR che rende possibile la ricerca parola per parola – 1500 inventari e 150 mila fascicoli. Mentre, per quel che riguarda le immagini, le scansioni effettuate hanno raggiunto i 2,5 milioni di riproduzioni e comprendono fotografie, documenti, disegni tecnici, manifesti, registri ecc.

La nuova “Teca digitale dell’Archivio Centrale dello Stato” recepisce le indicazioni europee – programma Horizon Europe 2021-2027 – per quel che riguarda le migliori pratiche per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Infatti, al centro del progetto appena presentato c’è la tecnologia IIIF (International Image Interoperability Framework). Una scelta strategica open source che permette di partecipare alla  grande “community IIIF” alla quale prendono parte le più importanti biblioteche digitali del mondo e soprattutto consente di disporre di un avanzato strumento per la manipolazione delle immagini che permette la visualizzazione ad altissima definizione, la comparazione con immagini provenienti da altre biblioteche della community,  il photoediting, le annotazioni e la condivisione sul web. Inoltre, sempre grazie alla tecnologia IIIF, anche l’interazione tra la Teca digitale e gli utenti riserva maggiori potenzialità: le ricerche effettuate possono essere salvate in una “gallery” e poi utilizzate per creare delle “storie”, vale a dire percorsi visuali con i quali arricchire le proprie esperienze di ricerca con la possibilità anche di pubblicarle mediante la funzione condivisione.

Nel biennio 2023-2024 la Teca digitale continuerà ad accrescere i suoi contenuti. A cominciare dall’ampliamento del percorso tematico già esistente: quello del “made in italy”. Agli oltre 160 mila marchi già disponibili on line, si aggiungeranno altre migliaia di documenti relativi a brevetti della moda, della tecnica e del design italiano. In particolare,  sarà avviata la digitalizzazione dell’Archivio Stile Bertone che consiste in grafici, modelli, disegni tecnici di prototipi progettati e realizzati tra il 1950 e il 2013.

Nel  2024 la digitalizzazione, invece, riguarderà 1,5 milioni d’immagini provenienti dall’ACC (Allied Control Commission) cioè l’archivio della Commissione Alleata di Controllo che operò in Italia tra il 1943 e il 1947; e poi una serie di documenti altrettanto importanti: le circa 60 mila carte dell’Archivio dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), i 75 mila testi normativi del periodo 1861-1932, i registri degli internati militari italiani in Germania e i materiali appartenenti agli archivi degli architetti dell’epoca fascista Luigi Moretti e Armando Brasini.

Pubblicato su “Nòva 24 Frontiere” (Il Sole 24 ore) il 26 marzo 2023

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Tentativi di “evoluzione” per la Biblioteca Digitale

La Biblioteca Digitale scivola sempre di più verso l’obsolescenza. Il fatto è che le sue modalità sono per lo più ferme alla teca o vetrina dove mettere in mostra o al più gestire  testi o immagini digitalizzate. Solo che – nel frattempo – l’ecosistema digitale è cambiato e ricambiato, e di conseguenza sono mutate le aspettative ed esigenze dei suoi potenziali utenti. Insomma, il vecchio “format” sembra proprio non bastare più.

Tra i tentativi più interessanti di “evoluzione” della Biblioteca Digitale c’è quello di DSpace-GLAM, vale a dire  la piattaforma digitale del gruppo 4Science, PMI innovativa con sede a Ravenna  specializzata in Data Science, Data Management e Data Repository per la Ricerca Scientifica e per i  Beni Culturali.  DSpace-GLAM recepisce  le indicazioni del Piano Nazionale di Digitalizzazione (PND) del patrimonio culturale che esorta la costruzione di nuovi paradigmi culturali e nello  specifico, riguardo le biblioteche digitali , prospetta l’idea di allargare i confini del concetto di patrimonio culturale per creare un ecosistema della cultura capace di incrementare la domanda potenziale e ampliare l’accessibilità per diversi segmenti di pubblico.

In primo luogo, la nuova Biblioteca Digitale targata 4Science, è compatibile con tutti gli standard nazionali, internazionali e linee guida RDA. Inoltre, è integrabile con i sistemi di “long term preservation” e garantisce un’adeguata esposizione per quanto riguarda la SEO (Search Engine Optimization). Infine, abbraccia strategicamente la filosofia “open source” anche rispetto alla scelta lungimirante di adottare l’ecosistema IIIF per quel che riguarda la navigazione, visualizzazione e consultazione dei documenti e immagini digitali.

Ma, il vero salto di qualità tentato dall’evolutivo DSpace-GLAM, è un altro. È quello di allargare i confini della tradizionale teca digitale introducendo il concetto di “contestualizzazione” nell’ambito della gestione e offerta di contenuti culturali digitalizzati. Vale a dire, ampliare le possibilità di ricerca degli utenti mettendo loro a disposizione nuove chiavi d’accesso per fruire / interrogare i patrimoni culturali digitalizzati.

L’innovazione fondamentale è l’implementazione di relazioni (digitali)– creando così dei contesti – tra gli oggetti digitali e altre entità quali persone, luoghi, oggetti, eventi ecc. E di conseguenza, in questo modo, determinare  l’apparire di un nuovo tipo di ecosistema: quello dei “paesaggi culturali digitali”. Ecosistema strutturato e poi visualizzato mediante  reti semantiche. La generazione dei  “paesaggi culturali digitali” che  si affiancano e si integrano con la “visione” istituzionale dei patrimoni culturali, può rappresentare un grande valore aggiunto nelle interazioni con la platea degli utenti e nel produrre, nell’ambito appunto delle biblioteche digitali,  nuova conoscenza e inedite prospettive nella valorizzazione dei beni culturali.

Come esempio, abbiamo alcune biblioteche digitali che hanno adottato la piattaforma DSpace-GLAM e che sono già in grado di creare primi abbozzi di “paesaggi culturali” intorno a personaggi storici significativamente presenti all’interno dei loro patrimoni. La Digital Library di Pavia ha creato una rete semantica intorno a Ugo Foscolo. Le collezioni digitali dalla Digital Library della Panizzi mettono, invece, in evidenza reti semantiche che attraversando la storia dell’arte hanno il loro centro intorno ai nomi di Raffaello e il Parmigianino.

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MuseIT: una piattaforma inclusiva per l’accesso ai patrimoni culturali digitalizzati

L’accesso ai patrimoni culturali digitalizzati non è ancora uguale per tutti. La grande platea di utenti che soffrono di qualche forma di disabilità – circa un miliardo di persone in tutto il mondo – spesso è ancora penalizzata nell’accesso e nell’usabilità delle varie  piattaforme digitali.

Ora però c’è un nuovo progetto europeo – MuseIT, finanziato dal programma Horizon Europe per il periodo 2022-2025 – che si propone proprio di colmare questo gap. Si tratta di un’iniziativa dell’Università di Boras (Svezia) che si avvale di un consorzio internazionale di 9 partner dell’area UE e 3 partner associati (USA e Regno Unito). L’obiettivo  del progetto è, infatti,  la progettazione di una piattaforma multisensoriale in grado di garantire una piena accessibilità e usabilità per  tutti utenti.

Al centro della proposta innovativa di  MuseIT ci sono le tecnologie tattili. E per sviluppare al meglio le loro potenzialità, il progetto si avvale di una società leader in questo settore: la francese Actronika. Il co-fondatore della società – Vincent Hayward – ha spiegato che grazie a 30 anni di ricerca sono state sviluppate tecnologie tattili capaci di integrare perfettamente i feedback tattili nelle interfacce uomo-macchina. Infatti, Actronika ha già sperimentato l’inserimento di questo  tipo di tecnologia  in tutti i principali dispositivi digitali: smartphone, touchscreen, controller per la guida e per il gioco ecc.

Per ottenere il risultato previsto, il progetto deve, in pratica, realizzare una rappresentazione multisensoriale dei patrimoni culturali digitalizzati capace di andare oltre i sensi della vista e dell’udito. Non solo. Deve anche, contemporaneamente, intervenire su un altro piano, e cioè innovare nell’ambito della conservazione di beni culturali “atipici”, prevedendo standard di archiviazione interoperabili per i nuovi oggetti digitali multisensoriali.

Più nello specifico, la piattaforma MuseIT consentirà la creazione di espressioni alternative e modalità di rappresentazione (tra cui digitalizzazioni, traduzioni, interpretazioni e/o transmediazioni per esperienze estetiche arricchite) di un insieme di beni culturali predefiniti: oggetti, siti architettonici, beni immateriali ecc. Le rappresentazioni multisensoriali offerte dalla piattaforma terranno conto delle variazioni nella modalità percettive e nella capacità funzionali e cognitive degli utenti, ma nel contempo soddisferanno anche esigenze e preferenze diverse al fine di creare pari opportunità per tutti. Pertanto, le rappresentazioni a più livelli, inclusi segnali visivi, uditivi e tattili, saranno centrali nel progetto.

Il progetto,  intervenendo su una problematica particolarmente complessa, si inspira ai principi dell’Inclusive Design, con particolare attenzione all’accessibilità e al Design Universale. Riguardo l’accessibilità, precondizione richiesta è, ovviamente,  la garanzia che tecnologie utilizzate e relative interfacce possano essere utilizzata da persone con varie forme di disabilità. Mentre, l’adozione del  paradigma del Design Universale mira a creare le condizioni per cui l’utilizzo della piattaforma multisensoriale possa rappresentare un’esperienza tale da coinvolgere non solo la platea della disabilità, ma tutti gli utenti interessati.

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La prima rivoluzione tecnologica: la scrittura

Nel susseguirsi delle invenzioni tecnologiche che hanno cambiato il mondo, la scrittura è l’evento storico fondamentale, ma per essere capito in pieno è necessario studiarlo  mettendolo a confronto con il mondo culturale che lo ha preceduto: quello dell’oralità. È questa la tesi centrale di Oralità e scrittura, le tecnologie della parola dell’antropologo, filosofo, esperto in problemi della comunicazione, Walter Ong. Ripubblicato recentemente dopo la prima edizione uscita nel 1982.

Il libro, malgrado i suoi oltre quarant’anni di età e il fatto che si occupi di tecnologie della comunicazione, non solo non risulta datato, ma è ancora considerato,  nell’ambito degli studi di storia della cultura e comunicazione umana,  un testo fondamentale. Questo è dovuto all’attualità della domanda che sottintende tutta la ricerca di Ong, vale a dire: quale impatto hanno avuto (e hanno) le tecnologie della comunicazione (parola, scrittura, stampa, computer) sul pensiero e sulla conoscenza degli esseri umani?

Per Ong il mondo dell’oralità, è stata una fase di esecuzioni verbali di grande bellezza e di alto valore artistico legate al senso dell’udito e al doppio filo della memoria. Ma è stato anche un mondo in cui mancava il pensiero astratto. Difatti, riprendendo il fondatore della neuropsicologia, il russo Aleksandr Romanovič Lurija, fa notare come una cultura orale non riesca a pensare in termini di figure geometriche, categorie astratte, logica formale ecc., tutte cose che derivano non semplicemente dal pensiero in sé ma dal pensiero condizionato dalla scrittura.

Ong indica un percorso evolutivo della psiche umana che solo con l’acquisizione della scrittura può sfruttare appieno le sue possibilità. Insomma, la scrittura è assolutamente necessaria per lo sviluppo della cultura: è indispensabile per la scienza, per la storia, per la filosofia, per la letteratura, per le arti e per il linguaggio stesso. È lo stesso Platone, “paradossalmente”, a dimostrarlo, sottolinea Ong, quando nel Fedro fa dire a Socrate che la scrittura è disumana poiché distrugge la memoria, indebolisce la mente…ma poi è proprio grazie alla scrittura che Platone può edificare il suo sistema filosofico basato sul pensiero astratto e le relative idee immutabili.

Il passaggio successivo, fondamentale, di Ong è quello di interpretare la scrittura come una “tecnologia”, cioè come un qualcosa di nuovo per il pensiero umano perché esterno alla semplice  condizione fisica com’era invece l’oralità basata sul senso “intimo” dell’udito. Ora, il senso   in gioco è quello “esterno” spaziale, della vista. E la scrittura con la sua “artificialità naturale” ha caratteristiche di una tecnologia perché richiede strumenti e perché attraverso questi strumenti realizza un oggetto fisico che prima non esisteva e che è distinto dalla persona che lo produce.

Ha rafforzare poi l’effetto che la scrittura ha sul pensiero e l’espressione, arriva la tecnologia della stampa che amplifica il carattere spaziale, visivo ed esterno rispetto alla fisicità umana in quanto oggettivato ancor di più dal processo tipografico. Ma, l’analisi di Ong non si ferma alla rivoluzione di Gutenberg, va avanti. E grazie anche alla collaborazione con il suo contemporaneo sociologo e studioso dei mezzi di comunicazione Marshall McLuhan, affronta anche i cambiamenti sul pensiero e conoscenza umana apportati dai nuovi media elettronici (radio, tv) e dai primi computer.

Condivide appieno il famoso slogan di McLuhan: “il medium è il messaggio”, nel senso che si trova d’accordo sul fatto che sia  proprio il mezzo (medium) con cui la lingua è comunicata (voce, scrittura, stampa, media elettronici e digitali) a determinare l’organizzazione del pensiero. E proprio le ultime riflessioni di Ong sui nuovi media e sull’avvento dell’era dei computer, lasciano trasparire  la sua convinzione nel ritenere la “parentesi di Gutenberg” – ovvero quel periodo di circa 500 anni situato tra le lunghe fasi della cultura orale e chirografica e la fase attuale dei media digitali – una sorta di “eccezione” all’interno del lunghissimo percorso del pensiero umano.  Alla quale inevitabilmente seguirà l’affermarsi di  una (nuova) oralità questa volta però supportata non solo dall’udito e dalla memoria ma soprattutto da tecnologie esterne, quelle dei media digitali, comunque anch’esse basate – come succedeva anche per l’oralità primaria –  sull’istantaneità, la ridondanza e l’ubiquità.

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