Lo scorso 21 gennaio, presso l’aula magna della Sapienza, è stata presentata una nuova biblioteca digitale: la Sapienza Digital Library (SDL). Requisiti di base: gestione integrata (OPAC) dei cataloghi delle biblioteche aderenti (56) e accesso a molteplici tipologie di contenuti digitalizzati (collezioni librarie, tesi di laurea, immagini, audiovisivi, schede archeologiche, data set ecc.).
Ma, non è tutto qui. La SDL va ben oltre. Il progetto mira, infatti, a oltrepassare l’obsoleto paradigma di biblioteca digitale intesa come catalogo-vetrina-contenitore, per proporsi invece più come multiforme piattaforma digitale capace di erogare svariati servizi: dalla produzione web per la valorizzazione dei patrimoni al publishing digitale e applicazioni di e-learning, per poi passare al virtual reference desk, alle consulenze per la digitalizzazione e metadatazione dei contenuti fino alla proposta di una fidelizzazione “social” con l’invito a sottoscrivere collaborazioni finalizzate alla donazione di risorse digitali.
Iniziative di questo genere delineano una tendenza in atto nelle biblioteche digitali, che dovendo fare i conti con la velocità di cambiamento e pervasività delle tecnologie digitali, sembrano prese dalla smania di essere sempre più “high tech”. E conseguentemente, tali ri-modulazioni continue non fanno che alimentare dibattiti intorno alla “domanda delle cento pistole”: “cos’è oggi una biblioteca digitale?” Domanda che invece andrebbe riformulata in: “quali sono oggi le ultime tecnologie intorno alle quali si tenta di ri-comporre una biblioteca digitale?”
Al momento, i domini tecnologici all’interno dei quali le digital library sembrano muoversi e ricombinarsi appaiono sostanzialmente tre: sistema di repository, piattaforma erogatrice di multiformi servizi digitali, aggregatore e/o punto d’accesso per contenuti e dati digitali interoperabili semanticamente. Con dietro l’angolo ulteriori sviluppi 3.0 che lasciano intravvedere una “massimazione” del web semantico grazie all’apporto dei linked data.
Tuttavia, la continua rincorsa delle tecnologie fino al limite del “soluzionismo tecnologico” paventato da Morozov, ha insito il rischio di svuotamento della missione culturale propria della biblioteca digitale. Caso scuola, quello della biblioteca digitale più grande e famosa del mondo: Google Books. Partita anni fa all’insegna dello slogan “organizzare l’informazione del mondo per renderla accessibile a tutti”, ha poi dato vita ad una campagna a tappeto di digitalizzazione esclusivamente quantitativa finalizzata alla creazione di uno sterminato archivio digitale.
Oggi – tenendo in debito conto che comunque si tratta di un’impresa privata finalizzata al profitto – si può dire che il vero obiettivo del colosso di mountain view non era tanto quello di realizzare un modello di biblioteca digitale per l’accesso universale autorevole, esaustivo e conservativo dal punto di vista sia catalografico che della copia digitale, ma piuttosto quello di ottenere un mega-database di informazioni catturate dai testi dei libri mediante OCR con le quali poter esercitare il monopolio presente e soprattutto futuro nel lucroso mercato della ricerca in Internet. Insomma, sempre più Google Search e sempre meno Google Books. Come dire: avanti tutta con gli algoritmi a scapito però dei libri.