Le biblioteche al tempo delle fake news

Nel 2016, ha fatto scalpore la decisione dell’Oxford English Dictionary di scegliere “post-truth” come parola dell’anno. All’improvviso,  tutti hanno scoperto di essere in una nuova era, incerta e preoccupante, quella della post-verità. In realtà, la disinformazione c’è sempre stata, compresa una sua certa legittimazione rintracciabile nei cascami filosofici del post-modernismo, a partire dal famoso assunto nietzschiano citato da tutti senza  quasi mai aver letto Nietzsche: “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Tuttavia, è innegabile che da un po’ di tempo a questa parte le cose sono ulteriormente e vorticosamente cambiate, e in peggio.

Internet ha rivoluzionato in pochissimo tempo il secolare status del mondo analogico trasformando – fondamentalmente –  l’informazione da risorsa scarsa a risorsa sovrabbondante. Non solo. Ha nello stesso tempo modificato geneticamente le modalità di produzione, diffusione e acquisizione delle informazioni. Poi con l’arrivo dei social media, l’impatto si è fatto devastante.

Al cambiamento quantitativo e qualitativo dell’informazione, si aggiunto un attacco senza precedenti alla legittimità dei modelli informativi e relative competenze del mondo analogico. Internet è apparsa come la scorciatoia verso un’erudizione fai da te e i social hanno imposto  una generica (pericolosa) sensazione di uguaglianza, del tipo: basta un account e tutti pari siamo…il tutto condito con massicce dosi di arroganza e narcisismo ben riscontrabili nel rifiuto (sempre più generalizzato)  di riconoscere quel principio razionale e di diseguaglianza basato sulla competenza, principio su cui – di fatto – si fonda la conoscenza e la diffusione del sapere  (Tom Nichols “La conoscenza e i suoi nemici”).

In questo mondo informativo nuovo e caoticamente liquido (ricordate Zygmunt Bauman?), che fine fanno le biblioteche? Una volta agenzie indiscusse della conservazione della conoscenza e diffusione del sapere.   Anche perché, il nuovo ecosistema informativo procedendo in maniera esponenziale e pervasiva – attraverso soprattutto la disintermediazione, la polarizzazione e la rimodulazione  dell’attenzione e della memoria – interferisce ormai a tal punto con le facoltà cognitive degli utenti da marginalizzare pratiche di trasmissione di conoscenze consolidate e imporre invece la propagazione virale di nuovi fenomeni comunicativi. Tra questi,  l’inquietante fenomeno delle  fake news.

Secondo Howard Rheingold,  tecnofilo inventore delle “comunità virtuali, sarebbero sufficienti delle semplici regole – come prendere informazioni sull’autore e valutare il design del sito web – per riconoscere e liberarsi delle fake news. Ma purtroppo, si tratta di un’analisi semplice e  ottimista. Un’analisi che non prende in considerazione la combinazione di preoccupanti aspetti psicologici e di  nuovi e sempre più insidiosi format tecnologici studiati ad hoc.

Ad esempio, il sistema fake news trova terreno fertilissimo nel cosiddetto “bias cognitivo di conferma” che trasferito nella Rete significa la tendenza a cercare informazioni che confermano ciò in cui già crediamo. Rinforzato poi – come spiega Tom Nichols nel suo “La conoscenza e i suoi nemici” – dall’effetto “Dunning-Kruger”, cioè dal fatto – dimostrato dai due ricercatori della Cornell University – che gli incompetenti che si aggirano in Internet “non solo giungono a conclusioni erronee e compiono scelte infelici, ma è proprio la loro incompetenza a privarli della capacità di rendersi conto degli errori compiuti”.

Dal canto suo, Eli Pariser ha ben descritto  – in un libro di successo uscito qualche anno fa – una delle più pericolose manipolazioni  tecnologiche al servizio delle fake news: “the filter bubble”. Nata originariamente per migliorare le esperienze di shopping on line, la tecnica della personalizzazione spinta è stata poi applicata anche alle ricerche su Internet. L’idea è quella di personalizzare ogni ricerca chiudendo di fatto l’utente in una bolla informativa autoreferenziale. Nei motori di ricerca, accanto alle normali query  basate sulla rilevanza e metadati, sono stati inseriti anche filtri aggiuntivi con lo scopo  di scandagliare i big data generati dalle preferenze e comportamenti dell’utente in Rete. In questo modo, attraverso i dati relativi ai profili personali degli utenti, filter bubble può piegare le ricerche alla “post-verità”. In altre parole, persone diverse otterranno risultati significativamente diversi (ognuno funzionale alla propria bolla informativa) malgrado  tutte abbiano inserito nel motore di ricerca la stessa  domanda.

La riscossa del mondo delle biblioteche, nel tentativo di rimettere un po’ di ordine in un caos informativo che disorienta e allontana gli utenti marginalizzando sempre di più  la competenza dei bibliotecari rispetto, è partita dall’ IFLA con un’infografica in 39 lingue: “Riconoscere le false notizie”. Un’infografica che elargisce buoni consigli: considera la fonte, approfondisci, verifica l’autore, fonti a supporto,  verifica la data,  si tratta di uno scherzo? Verifica i tuoi preconcetti, chiedi a un esperto ecc… L’idea alla base è che dal mondo delle biblioteche possa (e debba) arrivare un contributo decisivo per migliorare la competenza degli utenti e che tale miglioramento – sempre nell’ambito del pluralismo informativo e della massima accessibilità dei contenuti – possa essere un primo, ma fondamentale, argine rispetto a quella che sembra una irresistibile avanzata della sottocultura delle fake news.

In realtà, le biblioteche –  soprattutto in ambito anglosassone –hanno già cominciato a muoversi. Tutte  con il medesimo duplice obiettivo: promozione (e strumenti) per informazioni di qualità e formazione per gli utenti. Ad esempio, le biblioteche dell’Università di Toronto forniscono – attraverso i servizi di reference on line – suggerimenti  su come effettuare verifiche rispetto a notizie poco attendibili nonché link di approfondimento sul problema “fake news”. La Dallas Public Library ha invece deciso  di puntare su corsi di giornalismo per gli utenti con docenti supportati da bibliotecari con un particolare focus su come cercare e selezionare informazioni  attendibili e accurate. Anche la Biblioteca pubblica di Oakland ha investito  sull’alfabetizzazione organizzando sulle fake news  laboratori interattivi. Più tradizionale, invece, l’approccio scelto dalla Biblioteca di Harvard che ha realizzato una dettagliata guida su “Fake news, disinformazione e propaganda” dove, tra l’altro, si possono trovare articoli accademici sull’argomento con un elenco di risorse on line specializzate sul controllo dei fatti.

Approccio, infine,  “anticonvenzionale” quello scelto dalla University di Washington di Seattle che sotto il titolo provocatorio Calling bullshit traducibile con “chiamare cazzate”, ha organizzato un corso che in realtà mira in alto:  mettere in condizione gli utenti di smascherare le fake pseudo-scientifiche, vale a dire quelle menzogne subdole presentate sotto forma di studi, modelli o dati statistici, quindi “apparentemente” autorevoli: “le cazzate sono linguaggio, cifre statistiche, dati grafici e altre forme di presentazione intese a persuadere impressionando e travolgendo un lettore o un ascoltatore, con un palese disprezzo per la verità e la coerenza logica. In questo corso, ci concentriamo sulle cazzate come spesso appaiono nelle scienze naturali e sociali: sotto forma di modelli e dati fuorvianti che guidano erroneamente”.

In Italia, l’AIB, dopo aver organizzato un convegno nel 2017 “Archivi e biblioteche al tempo delle fake news” nel quale è stato ribadito: il ruolo degli archivi e biblioteche come strumenti di conoscenza critica della realtà e quindi fondamentali per la cittadinanza attiva, l’apprendimento, la salvaguardia della memoria culturale e il confronto delle idee, nel febbraio 2018 ha risposto alla consultazione pubblica lanciata dalla UE sulle cause della disinformazione on line e sui possibili rimedi. In questa occasione, la principale organizzazione italiana di biblioteche, oltre a riaffermare che la disinformazione on line non può essere contrastata con misure liberticide in quanto le fake news non devono essere mai confuse con la libertà di pensiero e opinione, ha indicato come rimedio principale la formazione permanente degli utenti. Un obiettivo da raggiungere intervenendo principalmente in tre settori: potenziando la rete di biblioteche di base e scolastiche, curando la formazione professionale dei bibliotecari e rafforzando l’accesso aperto alle informazioni pubbliche con particolare riguardo ai risultati della ricerca scientifica.

Tuttavia, oltre agli sforzi da parte di bibliotecari, educatori ecc. nella promozione di un’alfabetizzazione digitale all’informazione, per  fortuna c’è anche qualcos’altro, intanto azioni di  fact-checking basate su strumenti e tecnologie per assistere gli specialisti dell’informazione nella verifica e controllo dei fatti, ma soprattutto pratiche avanzate di multiliteracy. Vale a dire di un approccio innovativo che  affronta due cambiamenti epocali: l’esistenza di una crescente diversità linguistica e culturale dovuta all’aumento della migrazione transnazionale e la proliferazione di diverse modalità di comunicazione che si esplicano attraverso le nuove tecnologie quali Internet, i multimedia, i social media ecc. L’uso didattico di questo approccio che utilizza una combinazione di paradigmi può – ad esempio – aiutare i bibliotecari nel loro sforzo quotidiano di  verificabilità delle informazione e di protezione  da garantire agli utenti rispetto alle cattive conseguenze epistemiche causate dall’assimilazione di informazioni scadenti e/o false.

E proprio in relazione al sapere e al conseguente concetto di verità, risultano particolarmente interessanti – anche in relazione ai compiti che possono essere assunti dalle biblioteche – le riflessioni della filosofa Franca D’Agostini. Secondo la quale, “la vera novità dei nostri tempi non tanto il dilagare indisturbato di insensatezze, falsità mezze verità: in fin dei conti è cresciuta la possibilità di essere ingannati, ma anche quella di smascherare gli inganni…” L’aspetto nuovo è che finalmente ci si è resi conto che esiste un problema di verità, ovvero “un’emergenza verità”. Da qui l’esigenza pubblica di fissare una serie di diritti – che ha chiamato “aletici” dalla parola greca “aletheia”(verità) – “per mettere il più possibile i cittadini al riparo da inganni nel quadro della crescente democratizzazione della conoscenza che contrassegna la nostra epoca. L’obiettivo non è imporre una “verità di Stato”, ma creare un ambiente favorevole al rispetto dei dati di fatto, fornendo all’opinione pubblica gli strumenti per orientarsi”.

Giorgio Antoniacomi – bibliotecario presso la Biblioteca comunale di Trento – in un suo stimolante articolo “I percorsi ingannevoli nella gestione delle collezioni di una biblioteca pubblica tra censura e legittimazione della post verità: verso un paradigma dei diritti aletici, ha provato a declinare i diritti alla verità indicati dalla filosofa D’Agostini nell’ambito dell’azione/servizi delle biblioteche, nell’intento di garantire in questo modo agli utenti, tra l’altro: il diritto di essere informati in modo veridico; il diritto di essere nelle condizioni di giudicare e cercare la verità;  il diritto di essere sostenuti dalla biblioteca nella ricerca delle fonti affidabili di verità;  il diritto di avere nella biblioteca un’autorità aletica affidabile… e poi sul “dove” inserire questi nuovi “diritti alla verità” nell’ambito della  gerarchia delle fonti normative che regolano una biblioteca pubblica, Antoniacomi suggerisce la “carta dei servizi”  in quanto assimilabile “a una sorta di contratto che la biblioteca assume unilateralmente nei confronti dei propri utenti, a garanzia dei diritti degli utenti stessi”

In ogni caso, l’indispensabilità delle biblioteche e dei bibliotecari nella lotta alle fake news, non è considerata da tutti così scontata. Infatti, proprio dall’interno dell’universo bibliotecario americano arriva una voce discordante. M. Connor Sullivan – bibliotecario della Widener Library della Harvard University – ha recentemente pubblicato  sul Journal of Librarianship and Information Science un articolo,  controcorrente: Why librarians can’t fight fake news. Sullivan, partendo dal panico creato dalla diffusione di false notizie che hanno caratterizzato le elezioni presidenziali americane nel 2016, offre nell’articolo una panoramica sui possibili approcci della biblioteconomia e su quelli della scienza dell’informazione rispetto al problema della disinformazione.  Arrivando alla fine dell’excursus a una conclusione originale.  Vale a dire, che la sola riaffermazione dei principi e dei servizi biblioteconomici – così come sostenuto dall’ALA – non sia sufficiente per condurre vittoriosamente la battaglia contro le fake news. Ma, al contrario, sia necessario un approccio globale che vada oltre la tradizionale selezione tra buona o cattiva informazione, e che  invece affronti – con nuovi strumenti concettuali – il nuovo contesto psicologico e sociale della Rete sempre di più determinato  dalle interazioni tra individui e gruppi e le tecnologie digitali.

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